
Dopo quasi un anno rivedo la betulla cambiare colore. È un pomeriggio d’autunno carico di luce che rende i contorni delle cose sfavillanti. Ho atteso il tramonto del sole, un aerografo rilascia un pulviscolo di policromie aranciate che slittano verso l’alto, nel cielo azzurro. Cosa avrei potuto scrivere se non descrivere miscelato il sentimento, frammenti di angoscia e gratitudine.
Sono stati mesi di morte e silenzio, rinascita e sgomento. Parole infilate come perle sbeccate, le une sulle altre sullo stesso filo di nylon. Un filo sottile e resistente, trattenuto dal dito pollice e dall’indice di una mano inesperta che attende. Attesa, mentre le stagioni cambiano, si susseguono.
È quasi già inverno. L’estate finita ieri ci ha ubriacati di sole, mare in cassetta e paura. Piscine piastrellate di turchese, scelte al posto della vastità misteriosa del mare. Spiagge impregnate di chiacchiere, mascherate di TNT e sparse ovunque. Dalle caviglie ai polsi, ai bordi delle strade fino ad approdare malefiche e sberluccicanti nelle giornate di pioggia tra l’erba, ai piedi di un bellissimo vero albero gigante. Funghi distopici velenosi, celestiali.
La betulla ricomincia a perdere le foglie e all’imbrunire la sagoma bruna della chioma, incerta, pettina l’azzurro sfumato del cielo. Da qui, le finestre accese delle case vicine mi ricordano le serate silenziose. Le ruote delle automobili accasciate sull’asfalto e la polvere sui cerchioni.
Gli insetti, il cui ronzio nell’aria sorpassava il silenzio di quell’umanità rumorosa ormai ferma in una tagliola e le altre bestie libere varcavano il confine. Sconfinavano.
Forse un anno fa non era ancora autunno. Pioveva sovente una pioggia sottile, costante e l’aria acre pungeva nel naso. Mi affannavo dentro case belle arrampicata sulla scala, certe volte tra i libri. Ne aprivo uno con le pagine ingiallite e spiavo con un occhio soltanto e con gli occhiali calati sul naso. Poi di corsa dietro l’autobus per acchiapparlo sul fianco, al volo verso casa. E tra il rumore del silenzio, in attesa, sentivo un prolifico e magico torpore. Lo stesso che poi ha fatto brillare le antiche gemme sugli alberi.
Con lo sguardo pieno di incanto immaginavo mondi inesplorati. Nel lucido labirinto di un orecchio scuro, tra le lamine pendenti di un orecchino indiano, attraverso i peli irsuti di una barba impolverata e sulle labbra sorridenti imburrate di rosso, è nel mio bus affollato che disegnavo il mondo dei sogni. L’unico capace di strapparmi ai gesti sempre uguali da compiere ogni giorno. Un tappeto da arrotolare, un mobile da spolverare inutilmente pieno e zeppo di cimeli di viaggio falsi, poco importa. L’apnea degli oggetti morti.
Quando la betulla completamente spoglia di foglie, con le braccia dei rami nocciola superbamente sciolti e alleggeriti dal peso ha regalato linfa e nutrimento alle prime impercettibili accennate gemme, queste sono esplose insieme alla pandemia feroce per gli umani: la vita scintillante e meravigliosa della natura insieme agli animali. Non prima di allora ho sentito il coro degli Angeli, le campane rintoccare echeggianti dagli svettanti campanili. Il trionfo dei profumi e della luce.
Sordità, occlusione, soffocamento. Una prigione che lascia intravedere la libertà e per questo spaventa.
Un incidente necessario, direzione di equilibri ostinati e contrari. Le note di quella musica celestiale rotolavano sulle nuvole ovattate di una primavera che nessuno avrebbe mai immaginato. Partorita da un raggio di sole brillava in purezza.

