Librorum cupiditas

“Fin da bambina sono stata posseduta da una focosa passione per i libri. Appetito ne avevo pochino, ma di pagine non ero mai sazia: le bevevo come bicchieri di latte, sgranocchiavo i suoni delle parole come noccioline, addentavo senza tregua un volume dopo l’altro assaporandone il fragrante sapore d’inchiostro e siccome sono molto golosa, non mi perdevo neppure le singole lettere, ognuna fornita di un suo fascino particolare, che raccoglievo come si raccolgono le briciole di torta rimaste nel piattino. Tutto si complicò quando, un giorno, feci indigestione”. 

Cosi comincia il racconto di Daniela Grassi intitolato Librorum cupiditas. È uno degli otto racconti contenuti in Bambine sulle tracce di inesorabili passioni (il racconto si trova alle pagine da 29 a 48). Insomma una bambina che fa indigestione di libri e di lettere dell’alfabeto finché un medico sentenzia «Questo è un raro caso di Librorum Cupiditas». Ma la passione per i libri spinge la nostra bambina a scoprire in un cassonetto un “libro scuro con la copertina di cartone spesso e severo, tutta maculata come la buccia d’una banana troppo matura, il dorso telato e le pagine che si intuivano ingiallite dal tempo”.

Se tutti avessero la fortuna di portare sulle spalle uno zaino con i quattro libri che ci sono sempre dentro al mio, e sentissero i loro commenti ai miei momenti di cedimento, sono sicura che avrebbero molte incertezze in meno e che molte esistenze procederebbero più spedite e serene, certe del loro scopo.

Il Flammarion

«Ma cosa succede?» sussurrai tra me e me.«Sveglia!» tornò a tuonare la voce. «Sono io!»«Io… chi?»«Ma come chi? Io, Il Flammarion, edizione italiana del 1893. Sono qui, tra le tue mani, 658 pagine, indici esclusi e ben 402 figure: riccamente illustrato, come si suol dire, ottime incisioni di monsieur Motty, monsieur Fouché, monsieur Levy e altri. Leggi il frontespizio se non ci credi!»«Il fronte che?». Soltanto allora, abbassai gli occhi e lessi ad alta voce sulla pagina che avevo davanti a me: ‘Il mondo prima della creazione dell’uomo, di Camillo Flammarion’, sotto cui in bianco e nero era raffigurato un buffo animale con enormi unghioni.«Vai, vai, sfoglia e di’ un po’ se non sono un signor libro» disse il Flammarion senza finta modestia e io, per educazione, ma anche perché non stavo più nella pelle dalla gioia di averlo tra le mani, cominciai a voltare con delicatezza le pagine consunte: mi apparvero animali preistorici che si bagnavano in acque primordiali e un lucertolone enorme che, dritto sulle zampe inferiori, curiosava negli abbaini d’un elegante palazzo di sei piani.«Bellissimo… » sussurrai, anche perché illustrazioni come quelle non le avevo mai viste.

La Filosofia morale

Da quel giorno, non appena mi era possibile, tiravo fuori i miei tesori e ne indagavo le pagine una dopo l’altra: il Muratori era un libro elegante e leggero, con la copertina chiara decorata a piccole foglie che parevano disegnate a mano. S’intitolava La Filosofia morale e al di là del severo argomento che trattava, sembrava adatto da portare a spasso. Era un libro decisamente gentile, niente a che fare con il sanguigno Flammarion, e ogni volta che lo si apriva, pareva rilasciare ancora quella luce d’acqua che si portava da Venezia, la città dove era nato ‘nella stamperia Remondini’.

Orazio

Il libro del ’600 invece, che nemmeno mi rendevo conto di quanti anni avesse, sebbene più piccolo e rilegato in cuoio bucherellato in cui si potevano seguire le gallerie dei tarli, somigliava di più al Flammarion, anche se non aveva le sue belle illustrazioni ed era tutto ricoperto di caratteri minuscoli e strani. Era tozzo, compatto, scuro come un enorme insetto e siccome qua e là in rosso, riuscivo a leggere ‘Oratio’, io presi a chiamarlo con quel nome, perché a differenza degli altri, non ero riuscita a identificare un titolo o un autore.«Che ignorante!» sbottava il Flammarion al mio indirizzo. «Questo è un breviario, è stato stampato a Parigi, ma è scritto in latino. ‘Oratio’, si pronuncia ‘O-ra-zio’ e non è un nome, significa preghiera».«Orazio» commentai io, che ormai mi lasciavo intimorire sempre meno, «per l’appunto: è un nome perfetto. Lo chiamerò proprio così».

Vecchi rancori

Ma il quarto libro che avevo salvato dal bidone, quello era proprio diverso dagli altri. Innanzi tutto era molto più giovane, se così si può dire, visto che era stato pubblicato a Firenze nel 1926, ma era anche molto più malconcio perché, questa era stata una delle prime cose che avevo capito, più era diventato facile ed economico stampare libri e più i volumi avevano cominciato a squinternarsi senza pietà, ad autodistruggersi facilmente nel passaggio di mano in mano, a disfarsi come foglie secche nel vento.E poi era diverso perché si trattava di un romanzo e i romanzi, di qualunque livello letterario siano, vivono immersi nella loro storia. Si intitolava Vecchi rancori di Giorgio Ohnet, e lì leggendo, capivo quasi tutto di quel che c’era scritto, tranne quando incontravo frasi come: «Siamo cugini germani» o «Bobart col fucile ad armacollo»

Le storie del Vento di Mezzanotte

I miei, quasi disperati, dopo avermi cercata dappertutto, mi ritrovarono sulla spiaggia, in mezzo a un cerchio di ragazzini, mentre narravo Le storie del Vento di Mezzanotte.

Li vidi che venivano avanti, stupiti, spaventati, come allucinati, ma non smisi di raccontare; gli feci invece un cenno festoso di saluto con la mano e continuai a disegnare, perché un bambino mi aveva prestato un blocco di fogli e dei pennarelli e io raccontavo e disegnavo, bei disegni semplici, ma dove non mancava nulla: non sapevo nemmeno come, comunque venivano fuori.

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